di Romana Cordova
In quest’ultimo periodo ho ascoltato a Medjugorje, e non solo, tante
testimonianze di conversione, racconti di storie di vita e dei modi,
vari e unici come è unica ogni persona, in cui la fede è stata
determinante, in cui credere e affidarsi all’amore di Dio è stata la
chiave che ha aperto le porte di una vita piena. Racconti che spiegano
annunciano affermano come la vera gioia, la pace, la salvezza terrena
prima ancora che eterna si trovano solo in Gesù. E allora ho pensato di
raccontarvi la storia della mia vita finora, per testimoniare anch’io
quanto in Dio sia il senso di tutto, della gioia e del dolore, nelle sue
vie incomprensibili il più delle volte, nelle prove, anche in quelle
aspre e difficili, nei tempi di prosperità, in ogni attimo. Leggerete
tanta sofferenza, ma l’amore di Dio è incommensurabile e quello che
voglio dirvi con la mia storia è proprio questo: siamo amati!
Parto dall’inizio. Ho avuto un’infanzia piena di affetto, attenzioni,
coccole, ma triste. Una famiglia formalmente cattolica, a Reggio
Calabria. Mio padre faceva l’avvocato (da giovane era stato pieno di
interessi, aveva preso due lauree, una in Economia e lavorato per un po’
come commercialista, poi in Giurisprudenza e nel frattempo fin dai
diciotto anni era giornalista per un quotidiano locale), mia madre era
insegnante di Lettere. Avevano saldi principi di stampo cattolico,
soprattutto mio padre, mia madre era più influenzata da alcune idee che
hanno sedotto milioni di persone dagli anni 60/70, in particolare per
quel che riguarda il ruolo della donna, anche se in modo attenuato dalla
cultura cattolica che comunque era molto presente nelle città del sud.
Erano praticanti in modo superficiale, senza assiduità e soprattutto non
pregavano. Entrambi eccessivamente legati alle loro famiglie d’origine,
soprattutto mia madre, sono stati più volte sull’orlo della
separazione, senza mai farlo, e di questo sono felice. I motivi erano
incomprensioni dovute all’intrusività dei parenti, alla mancata
costruzione di un’unione sponsale profonda e forte e preminente su gli
altri affetti parentali. L’orgoglio di entrambi è sfociato in una guerra
fredda molto pesante per me. Questo acuito dal fatto che ero rimasta
figlia unica e che tranne la scuola, unico luogo in cui frequentavo
coetanei, stavo sempre con gli adulti, e mi mancava la spensieratezza di
quell’età. Mi sentivo sola e tanto oppressa, infelice al punto che a
dodici anni pensavo che avrei tenuto duro fino ai diciotto e poi se
niente fosse cambiato mi sarei buttata da un balcone come soluzione per
non soffrire. Era un ragionamento influenzato anche da quel modo di
pensare, oggi sempre più diffuso, che vede la morte come soluzione per
fuggire dalle sofferenze in un’autodeterminazione per cui si decide se
vivere o no in base al tipo di qualità di vita che si vuole. E cioè un
atteggiamento depresso. Desideravo una famiglia pur avendola, desideravo
l’armonia, nonostante non fossi minimamente trascurata dai miei
genitori che avrebbero dato la vita per me.
Avevo quattordici anni quando mio padre scoprì di avere un tumore ai
polmoni ed esattamente l’anno successivo, dopo chemioterapia e la grazia
di avere pochissime sofferenze rispetto a quelle previste in quei casi,
muore. L’anno successivo si ammala di mielite e in pochi mesi muore
anche la mia nonna paterna, a cui ero strettamente legata, e io ho
vissuto un dolore fortissimo aggravato dal fatto che lei non era amata
da nessuno, per colpa sua dicevano, fatto sta che non era amata né
capita, quindi per me quel periodo è stato un’esperienza di solitudine,
sua e quindi anche mia, immensa, lacerante. Ho passato così l’anno dei
miei sedici anni.
Trascorro quegli anni di adolescenza dopo la morte di mio padre
catapultata nell’atmosfera dei parenti di mia madre, genitori, fratelli,
ma soprattutto i numerosi zii e cugini che lei era felice di riprendere
a frequentare assiduamente e a cui era fortemente legata. Finita la
scuola mi iscrivo all’università come tappa obbligata per far qualcosa,
per seguire l’onda. Scelgo Lettere moderne solo perché per me era una
cosa facile, ma senza alcuna passione, interesse. Il mio desiderio per
la vita era solo costruirmi una famiglia. Non ho sviluppato passioni da
coltivare o l’interesse per un’attività lavorativa per esprimere le mie
potenzialità. Mi mancavano le basi. Quello che cercavo era il calore
umano, il calore di una famiglia, amicizie, amare ed essere amata,
relazioni affettive profonde e durature. Forse anche per questo non mi
interessavano i fidanzatini adolescenziali, quelle cose che sapevi che
difficilmente sarebbero state per sempre. E quindi non ne avevo mai
avuto uno. Mi invaghivo delle ipotetiche suocere e delle famiglie dei
ragazzi più che di loro, cercando un modello di donna a cui ispirarmi,
che era sempre la madre di vari figli, classica, raffinata, casalinga,
con una bella casa. Sognavo! Speravo nel futuro.
Conclusa l’adolescenza, avevo ventun’anni quando mia madre si ammala
di tumore al seno. Diagnosi precoce, operazione, chemio. Sembrava tutto
sconfitto ma un anno e mezzo dopo arrivano le metastasi al fegato e in
pochi mesi dopo nuova chemio e radioterapia con tutto quello che
comporta vivere la malattia, e farlo sola io e lei come famiglia, ma con
la pressante e costante, amorevole forse per lei, ma estenuante per me
presenza dei suoi parenti, muore circa un mese dopo la mia laurea.
A ventitré anni mi ritrovo sola al mondo.
E in questa condizione ho vissuto per nove lunghi anni, fino a quando
poi ho incontrato mio marito. Lunghi anni in cui ho conosciuto la
disperazione, la ricerca del senso della vita, il vuoto, la speranza, lo
sconforto, le incomprensioni, le maldicenze, il pietismo, tanto tanto
pietismo, la superficialità della gente, l’aiuto, ancora il vuoto e
ancora la speranza. E la fede.
Sola al mondo. Il pensiero di farla finita come soluzione per non
soffrire, per una vita la cui qualità mi terrorizzava, per una vita che
non mi sembrava vita in quelle condizioni, c’è stato nei primi mesi. Ma,
grazie a Dio, il pensiero che era il momento di attuarlo mi faceva
ancor più ribrezzo, dal più profondo della mia anima c’era un rifiuto,
istintivo, viscerale. Non ce l’avrei mai fatta a suicidarmi. E così ho
capito che non potevo fare altro che sopravvivere, con la speranza,
cieca, aggrappata allora solo vagamente a Dio, di riuscire poi a vivere,
col sogno di vivere bene.
La solitudine annienta. Il fatto di non appartenere, di non aver
nessuno da amare e da cui essere amata, di abitare da sola, di occuparmi
di tutto da sola, mi toglieva il senso del vivere.
C’erano i parenti, ma tra me e loro non c’erano mai stati rapporti
veri, profondi, e dopo qualche tentativo con alcuni di instaurare una
vicinanza familiare ho dovuto allontanarmi. Con alcuni c’era troppa
diversità di mentalità, di vedute, in particolare poi per le antipatie
passate tra alcuni di loro e mio padre, soprattutto con mia nonna,
sentivo come se avessi dovuto rinnegarlo, rinnegare una parte di me, i
tratti suoi in me che a loro certo non piacevano. Altri proprio non
volevano o non sentivano di aiutarmi veramente, il loro unico interesse
era chiaramente solo apparire buoni agli occhi degli altri, per cui io
me ne sono allontanata. Ovviamente ho subìto attacchi, non diretti, ma
subdoli che si sono manifestati successivamente perfino in lettere
anonime indirizzate ad ambienti e ad amici che frequentavo, che miravano
a screditarmi e a farmi apparire come una cattiva persona sottolineando
la bontà dei parenti da cui io mi ero allontanata.
Nel periodo del primo tumore di mia madre la paura di poter rimanere
da sola e l’infelicità di quella vita che sentivo troppo stretta mi
aveva portata a iniziare la psicanalisi da un dottore molto conosciuto e
amato in città. E, rimasta sola, lui è stato la mia fonte di salvezza.
Di sicuro uno strumento del Signore e il primo che mi ha portata verso
di Lui. Data la mia situazione di totale mancanza di affetti, il
rapporto con lui è poi cambiato, il rapporto professionale è venuto meno
ed è diventato un sostegno parentale, infatti lo chiamo zio, perché da
zio si è comportato, fornendomi aiuto nelle varie vicende pratiche e
burocratiche di ogni tipo, presentandomi come sua nipote, fornendomi
così calore e protezione. Ma soprattutto mi ha formata umanamente, mi ha
insegnato a vivere, trasmettendomi anche la sua fede. Gran parte di
come sono lo devo a lui. Il fatto che lui mi volesse bene mi ha dato la
forza di andare avanti. Quando inizialmente gli ho chiesto perché faceva
tanto per me senza trarne nessun vantaggio e senza avere nessun dovere
verso di me, in modo così chiaramente donativo, lui mi ha risposto:
“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Io non sapevo in
quel momento che fosse una frase del Vangelo, che fosse parola di Gesù,
ma quelle parole mi hanno dato vita nel profondo del cuore, qualcosa di
indescrivibile. E così via via ho imparato da lui a guardare tutto in
un’ottica di fede cristiana e ad approfondire cosa davvero fosse questa
fede cristiana. Lui è stato per me la luce nel buio, l’acqua nel
deserto, l’aria che fa respirare, una figura paterna che mi ha guidato,
fatto crescere, insegnato a vivere.
Ero sempre stata credente, da bambina a scuola dalle suore tra gli
otto e i dieci anni pensavo di farmi suora da grande, ma poi il fervore
dell’infanzia era passato e io avevo acquisito abbastanza della
mentalità del mondo, utilitaristica, egoistica, pur rimanendo sotto
tanti aspetti diversa, un po’ “antica” come ragazza, con modi di pensare
e sogni considerati retrogradi.
Non pregavo, non avevo mai pregato. In quei primi anni di vita da
sola avevo iniziato ad andare alla Messa quotidiana nel pomeriggio ma
solo perché mi faceva star meglio. Andavo e mi passava il mal di testa,
mi sentivo sollevata, rilassata, al sicuro e avrei voluto che la messa
durasse più a lungo perché lì mi sentivo meglio, poi uscivo e l’effetto
durava per un po’. E allora volevo tornarci il giorno dopo. Ma ancora
non pregavo.
È stato tramite questo “zio” che ho conosciuto un’altra persona che
sarebbe diventata importantissima per me, diventando anche lei e suo
marito degli “zii” che si sono resi disponibili ad aiutarmi e darmi
affetto. Ed è stato tramite questa “zia”, che è una figura particolare,
molto legata alla preghiera, che ho iniziato a pregare. Ho iniziato a
pregare il rosario e non ho più smesso. La preghiera mi ha cambiato, ho
iniziato a sentirmi amata, a sentire che Dio mi ama, a considerare ogni
cosa con uno sguardo diverso. Piano piano sono guarita dalla depressione
che il susseguirsi di eventi dolorosi e la situazione che vivevo mi
aveva procurato. Chi, solo al mondo, non si deprime? Una depressione
esogena (dovuta ad eventi esterni) non endogena, forse per questo meno
grave, ma comunque sempre dolorosa che ho superato, o meglio, da cui
sono stata liberata, oltre che con la supplica anche dando quel poco che
ognuno ha da dare, la propria volontà. Il volersi lasciar andare, la
svogliatezza, il non volersi alzare dal letto o dal divano, mangiare a
fatica e male solo per sopravvivere, guardarsi allo specchio e
desiderare di prendersi a schiaffi, tutto questo l’ ho superato solo
quando ho capito che questo atteggiamento nei confronti di me stessa era
sbagliato come se fosse nei confronti di un’altra persona e cioè nei
confronti di qualcuno che è di Dio. Io non sono mia, sono Tua, Tu mi ha
creata. Lì si poneva la scelta: mi alzo dal divano con grande fatica e
lo faccio anche se non capisco niente, neanche perché ci sono
sprofondata, solo per amor Tuo. Mi alzo perché voglio credere in Te, nel
tuo amore. Mangio anche se non mi va di mangiare perché so che il cibo
mi serve e Tu vuoi che io viva. Devo trattare me come è giusto trattare
un’altra persona, una persona quindi tua … E questi ragionamenti hanno
spronato la mia forza di volontà in un rapporto che era diventato
personale, d’amore con Gesù e non più come con il Dio lontano che
immaginavo prima. Dopo lo sforzo, cioè l’offerta dell’unica cosa che
abbiamo, la volontà, il peso diventa più leggero, i malesseri
diminuiscono e scompaiono, la forza ritorna. Il Signore guarisce, salva.
Ho capito che il valore di ogni persona è incommensurabile, e che
questo non dipende da ciò che si ha, ma è solo perché siamo creati da
Dio e lui è Amore. Quante volte camminando per la strada e vedendo i
mendicanti mi sentivo come loro. Mi sentivo l’ultima su questa terra. E
la cosa che mi sollevava nei fiumi di lacrime era sapere, credere che
anche se su questa terra non ero importante per nessuno, per Dio che mi
ha creata e che è morto in Croce per me ero importante. In quel mistero
incomprensibile alla ragione ma che il cuore riconosce e che dà vita.
Questo mi dava il senso del vivere.
Come i mendicanti, ma io non mendicavo soldi. Sotto questo aspetto mi
sentivo come gli uccelli del Cielo e i gigli dei campi che vengono
nutriti dal Padre. A me era dato di vivere con quello che mi avevano
lasciato i genitori senza la necessità di lavorare. Non avrei potuto per
sempre, ma per quei dieci anni ho avuto di che vivere tranquillamente e
senza il bisogno di lavorare. Ho lavorato per due anni in una
segreteria politica e poi periodicamente, dopo aver studiato come
docente di italiano a stranieri, come insegnante di italiano, appunto, a
stranieri. Ho fatto queste cose per occupare il tempo, per cercare di
far cose normali, cercando una strada, senza che questi lavori mi
appagassero o che li sapessi fare. Io mendicavo amore, affetto, calore
umano. E non lo mendicavo apertamente, ma con una corazza protettiva di
autodifesa che mi faceva sembrare più forte di quella che ero e agli
occhi dei più superficiali sembravo fredda e credo anche cattiva. Sì, in
certi periodi ho innalzato scudi protettivi molto grandi, soprattutto
nei confronti di alcuni parenti, ma volevo vivere e volevo farlo al
meglio e quindi erano necessari. Ho sempre avuto un’attrazione per il Vero, il Bello, il Buono,
anche prima della conversione che mi ha resa consapevole e dove non
trovavo istintivamente questo dovevo difendermi, non potevo permettere
che la vulnerabilità della solitudine mi penalizzasse più di quanto
fosse già penalizzante soffrire per la mancanza di tutto.
Inoltre non esternare il mio dolore, fingere di star bene o meglio di
quanto stessi, spesso scambiato per orgoglio, era un modo per rendere
la mia vita il più possibile uguale agli altri, normale. Per lottare con
il peso della diversità, del sentirsi quella con la vita strana,
brutta, fuori dal comune, piena di sofferenze, che soprattutto quando si
è giovani e donne e in un mondo superficiale che certo non aiuta è più
difficile da sopportare. Facevo di tutto per contrastare e soprattutto
salvaguardarmi dal pietismo, dalla mentalità depressa degli altri che
distrugge. Ho dovuto farlo anche nei confronti di mia nonna, da cui ho
dovuto allontanarmi per non essere fagocitata in un vortice di tristezza
mortifera, delusa del perché neanche in lei trovassi aiuto.
In più in quegli anni altre vicende mi hanno prostrata, angherie che
hanno condizionato la mia vita notevolmente da parte di due ragazze che
consideravo amiche e in un contesto di preghiera, in un sistema di
sottomissione psicologica in cui ero caduta. Non voglio parlare oltre di
questo, ma accennarlo sì, devo. Il Signore mi ha liberato anche da
quest’oppressione. Ci vengono date prove, ma Lui non ci lascia mai e non
ci dà prove più grandi di quanto possiamo sopportare. Non è retorica, è
la verità.
Avendo sperimentato la solitudine a 360° ho conosciuto anche la
sofferenza della “singletudine”. Passavano gli anni con qualche
invaghimento da parte mia non corrisposto e qualche rifiuto dato senza
che mai iniziasse una storia. Il mio primo e unico fidanzato l’ho
conosciuto a 32 anni ed è quello che avrei sposato l’anno dopo. L’ho
atteso per tanti anni, mi sembra di averlo atteso da sempre e poi è
arrivato. Un’amica mi ha detto “ l’hai trovato proprio come lo volevi!”.
Sì, come lo volevo, come era adatto a me, pensato per me, ma non solo,
molto molto di più di quanto avessi mai immaginato. Davvero non avevo
mai immaginato che sarei stata amata così tanto.
Con il matrimonio tutto è cambiato. Ho conosciuto la gioia, che prima
non avevo mai sperimentato. Il trasferimento in un’altra città, una vita
completamente nuova. E si è arricchita di amicizie, persone che stimo,
persone veramente belle con cui condividere la fede, lo sguardo, il modo
di vivere e vedere la vita, una porzione di mondo che avevo sempre
desiderato incontrare, ma che prima non trovavo. La vita
prosegue…vediamo cosa ci sarà…
Non posso che concludere questo racconto della mia storia andando a
confessarmi per tutte le volte che ho mancato e che manco di fiducia nel
Signore. Perché riguardando il mio passato è evidente quanto mi abbia
sollevato e liberato e dato forza per affrontare ogni cosa. Strettamente
legata alla fede è la fiducia in Lui e nel suo amore ed è la cosa che
bisogna accrescere e mantenere viva e sempre più forte. La chiedo.
Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato!
Fonte: Mienmiuaif
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