Il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Cardinali e i
Superiori della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.
Nel corso dell’incontro, il Papa ha rivolto alla Curia Romana il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
«E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Cari fratelli e sorelle,
a tutti voi il mio cordiale benvenuto. Ringrazio il Cardinale Angelo
Sodano per le parole che mi ha rivolto, e soprattutto desidero
esprimergli la mia gratitudine, anche a nome dei Membri del Collegio
Cardinalizio, per il prezioso e puntuale servizio che Egli ha svolto
quale Decano, per lunghi anni, con disponibilità, dedizione, efficienza e
grande capacità organizzativa e di coordinamento. Con quel modo di
agire della “rassa nostrana”, come direbbe Nino Costa [scrittore
piemontese]. Grazie di cuore, Eminenza! Adesso tocca ai Cardinali
Vescovi eleggere un nuovo Decano; spero che scelgano qualcuno che si
occupi a tempo pieno di questa carica tanto importante. Grazie.
A voi qui presenti, ai vostri collaboratori, a tutte le persone che
prestano servizio nella Curia, come pure ai Rappresentanti Pontifici e a
quanti li affiancano, auguro un santo e lieto Natale. Ed agli auguri
aggiungo la riconoscenza per la dedizione quotidiana che offrite al
servizio della Chiesa. Grazie tante!
Anche quest’anno il Signore ci offre l’occasione di incontrarci per
questo gesto di comunione, che rafforza la nostra fraternità ed è
radicato nella contemplazione dell’amore di Dio rivelatosi nel Natale.
Infatti, «la nascita di Cristo – ha scritto un mistico del nostro tempo –
è la testimonianza più forte ed eloquente di quanto Dio abbia amato
l’uomo. Lo ha amato di un amore personale. È per questo che ha preso un
corpo umano al quale si è unito e lo ha fatto proprio per sempre. La
nascita di Cristo è essa stessa una “alleanza d’amore” stipulata per
sempre tra Dio e l’uomo»[1]. E San
Clemente d’Alessandria scrive: «Per questo lui [Cristo] è disceso, per
questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è
degli uomini, affinché, dopo essersi misurato con la debolezza di noi
che egli amò, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza»[2].
Considerando tanta benevolenza e tanto amore, lo scambio degli auguri
natalizi è altresì un’occasione per accogliere nuovamente il suo
comandamento: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli
altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore
gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). Qui, di fatto, Gesù non ci
chiede di amare Lui come risposta al suo amore per noi; ci domanda,
piuttosto, di amarci l’un l’altro con il suo stesso amore. Ci domanda,
in altre parole, di essere simili a Lui, perché Egli si è fatto simile a
noi. Il Natale, dunque – esorta il santo Cardinale Newman –, «ci trovi
sempre più simili a Colui che, in questo tempo è divenuto bambino per
amor nostro; che ogni nuovo Natale ci trovi più semplici, più umili, più
santi, più caritatevoli, più rassegnati, più lieti, più pieni di Dio»[3]. E aggiunge: «Questo è il tempo dell’innocenza, della purezza, della dolcezza, della gioia, della pace»[4].
Il nome di Newman ci ricorda anche una sua ben nota affermazione, quasi un aforisma, rintracciabile nella sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana,
che storicamente e spiritualmente si colloca al crocevia del suo
ingresso nella Chiesa Cattolica. Dice così: «Qui sulla terra vivere è
cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[5].
Non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento,
oppure di seguire le mode, ma di avere la convinzione che lo sviluppo e
la crescita sono la caratteristica della vita terrena e umana, mentre,
nella prospettiva del credente, al centro di tutto c’è la stabilità di
Dio[6].
Per Newman il cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione[7].
La vita cristiana, in realtà, è un cammino, un pellegrinaggio. La
storia biblica è tutta un cammino, segnato da avvii e ripartenze; come
per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono in Galilea, si misero
in cammino per seguire Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono
tutto e lo seguirono» (Lc 5,11). Da allora, la storia del popolo
di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze,
spostamenti, cambiamenti. Il cammino, ovviamente, non è puramente
geografico, ma anzitutto simbolico: è un invito a scoprire il moto del
cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di
cambiare per potere essere fedele[8].
Tutto questo ha una particolare valenza nel nostro tempo, perché quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca.
Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono
più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano
velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed
elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di
comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il
cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in
realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si
legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come
è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare
dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del
discernimento, della parresia e della hypomoné. Il
cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento
di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno…
diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica[9].
Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: «Dio si manifesta
in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo
spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso.
Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche
lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare
spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della
storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E
richiede pazienza, attesa»[10]. Da
ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della
fede, affinché la direzione di questo cambiamento «risvegli nuove e
vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi»[11].
Affrontando oggi il tema del cambiamento che si fonda principalmente sulla fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione, desidero ritornare sull’attuazione della riforma
della Curia romana, ribadendo che tale riforma non ha mai avuto la
presunzione di fare come se prima niente fosse esistito; al contrario,
si è puntato a valorizzare quanto di buono è stato fatto nella complessa
storia della Curia. È doveroso valorizzarne la storia per costruire un
futuro che abbia basi solide, che abbia radici e perciò possa essere
fecondo. Appellarsi alla memoria non vuol dire ancorarsi
all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un
percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica.
Implica per sua natura movimento. E la tradizione non è statica, è
dinamica, come diceva quel grande uomo [G. Mahler]: la tradizione è la
garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri.
Cari fratelli e sorelle,
nei nostri precedenti incontri natalizi, vi ho parlato dei criteri
che hanno ispirato questo lavoro di riforma. Ho anche motivato alcune
attuazioni che sono già state realizzate, sia definitivamente sia ad experimentum[12].
Nel 2017 ho evidenziato alcune novità dell’organizzazione curiale,
come, ad esempio, la Terza Sezione della Segreteria di Stato, che sta
andando molto bene; o le relazioni tra Curia romana e Chiese
particolari, ricordando anche l’antica prassi delle Visite ad limina Apostolorum;
o la struttura di alcuni Dicasteri, in particolare quello per le Chiese
Orientali e altri per il dialogo ecumenico e per quello interreligioso,
in particolare con l’Ebraismo.
Nell’incontro odierno vorrei soffermarmi su alcuni altri Dicasteri partendo dal cuore della riforma, ossia dal primo e più importante compito della Chiesa: l’evangelizzazione.
San Paolo VI affermò: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria
della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per
evangelizzare»[13]. Evangelii nuntiandi,
che anche oggi continua ad essere il documento pastorale più importante
del dopo Concilio, e attuale. In realtà, l’obiettivo dell’attuale riforma
è che «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni
struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione
del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle
strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in
questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie»
(Esort. ap. Evangelii gaudium, 27). E allora, proprio ispirandosi
a questo magistero dei Successori di Pietro dal Concilio Vaticano II
fino ad oggi, si è pensato di proporre per l’instruenda nuova Costituzione Apostolica sulla riforma della Curia romana il titolo di Praedicate evangelium. Cioè l’atteggiamento missionario.
Ecco perché il mio pensiero va oggi ad alcuni fra i Dicasteri della
Curia romana che con tutto questo hanno un esplicito riferimento già
nelle loro denominazioni: la Congregazione per la Dottrina della Fede, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli; ma penso anche al Dicastero della Comunicazione e al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
Quando queste prime due Congregazioni citate furono istituite, si era
in un’epoca nella quale era più semplice distinguere tra due versanti
abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora
da evangelizzare dall’altra. Adesso questa situazione non esiste più. Le
popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non
vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano
dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che
richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città
abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a
riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti:
Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati[14].
Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che
non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un
regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure
in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio
del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e
ridicolizzata. Ciò fu sottolineato da Benedetto XVI quando, indicendo
l’Anno della Fede (2012), scrisse: «Mentre nel passato era
possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto
nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati,
oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a
motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone»[15].
E per questo fu istituito nel 2010 il Pontificio Consiglio per la
Promozione della Nuova Evangelizzazione, per «promuovere una rinnovata
evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della
fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo
una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi
del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati
per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo»[16].
A volte ne ho parlato con alcuni di voi... Penso a cinque Paesi che
hanno riempito il mondo di missionari – vi ho detto quali sono – e oggi
non hanno risorse vocazionali per andare avanti. E questo è il mondo
attuale.
La percezione che il cambiamento di epoca ponga seri interrogativi
riguardo all’identità della nostra fede non è giunta, a dire il vero,
all’improvviso[17]. In tale quadro
s’inserirà pure l’espressione “nuova evangelizzazione” adottata da San
Giovanni Paolo II, il quale nell’Enciclica Redemptoris missio scrisse: «Oggi la Chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia
nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto
l’annuncio di Cristo» (n. 30). C’è bisogno di una nuova
evangelizzazione, o rievangelizzazione (cfr n. 33).
Tutto questo comporta necessariamente dei cambiamenti e delle mutate
attenzioni anche nei suindicati Dicasteri, come pure nell’intera Curia[18].
Alcune considerazioni vorrei riservarle pure al Dicastero per la Comunicazione, di recente istituzione. Siamo nella prospettiva del cambiamento
di epoca, in quanto «larghe fasce dell’umanità vi sono immerse in
maniera ordinaria e continua. Non si tratta più soltanto di “usare”
strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente
digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di
spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di
comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con
gli altri. Un approccio alla realtà che tende a privilegiare l’immagine
rispetto all’ascolto e alla lettura influenza il modo di imparare e lo
sviluppo del senso critico» (Esort. ap postsin. Christus vivit, 86).
Al Dicastero per la Comunicazione è stato dunque affidato il compito
di accorpare in una nuova istituzione i nove enti che, precedentemente,
si occupavano, in varie modalità e con diversi compiti, di
comunicazione: il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, la
Sala Stampa della Santa Sede, la Tipografia Vaticana, la Libreria
Editrice Vaticana, l’Osservatore Romano, la Radio Vaticana, il Centro
Televisivo Vaticano, il Servizio Internet Vaticano, il Servizio
Fotografico. Questo accorpamento, tuttavia, in linea con quanto detto,
non si proponeva un semplice raggruppamento “coordinativo”, ma di
armonizzare le diverse componenti in ordine a produrre una migliore
offerta di servizi e anche a tenere una linea editoriale coerente.
La nuova cultura, marcata da fattori di convergenza e multimedialità,
ha bisogno di una risposta adeguata da parte della Sede Apostolica
nell’ambito della comunicazione. Oggi, rispetto ai servizi
diversificati, prevale la forma multimediale, e questo segna anche il
modo di concepirli, di pensarli e di attuarli. Tutto ciò implica,
insieme al cambiamento culturale, una conversione istituzionale e
personale per passare da un lavoro a compartimenti stagni – che nei casi
migliori aveva qualche coordinamento – a un lavoro intrinsecamente
connesso, in sinergia.
Cari fratelli e sorelle,
molte delle cose sin qui dette, valgono anche, in linea di principio, per il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
Anch’esso è stato istituito recentemente al fine di rispondere ai
cambiamenti intervenuti a livello globale, attuando la confluenza di
quattro precedenti Pontifici Consigli: Giustizia e Pace, Cor Unum,
Pastorale dei Migranti e Operatori Sanitari. La coerenza dei compiti
affidati a questo Dicastero è sinteticamente richiamata dall’esordio del
Motu Proprio Humanam progressionem che lo ha istituito: «In
tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo
sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo. Tale sviluppo si
attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia,
della pace e della salvaguardia del creato». Si attua nel servire i più
deboli ed emarginati, in particolare i migranti forzati, che
rappresentano in questo momento un grido nel deserto della nostra
umanità. La Chiesa è dunque chiamata a ricordare a tutti che non si
tratta solo di questioni sociali o migratorie ma di persone umane, di
fratelli e sorelle che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della
società globalizzata. È chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è
“straniero” o “escluso”. È chiamata a svegliare le coscienze assopite
nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per
molti, troppi, un cimitero.
Vorrei richiamare l’importanza del carattere di integralità
dello sviluppo. San Paolo VI affermò che «lo sviluppo non si riduce alla
semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere
integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di
tutto l’uomo» (Enc. Populorum progressio, 15). In altre parole,
radicata nella sua tradizione di fede e richiamandosi, negli ultimi
decenni, al magistero del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha sempre
affermato la grandezza della vocazione di tutti gli esseri umani, che
Dio ha creato a sua immagine e somiglianza perché formassero una sola
famiglia; e al tempo stesso ha cercato di abbracciare l’umano in tutte
le sue dimensioni.
È proprio questa esigenza di integralità a riproporre oggi a noi l’umanità che ci accomuna in quanto figli di un unico Padre.
«In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a
promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo» (M.P. Humanam progressionem).
Il Vangelo riporta sempre la Chiesa alla logica dell’incarnazione, a
Cristo che ha assunto la nostra storia, la storia di ognuno di noi.
Questo ci ricorda il Natale. L’umanità, allora, è la cifra distintiva
con cui leggere la riforma. L’umanità chiama, interpella e pro-voca, cioè chiama a uscire fuori e a non temere il cambiamento.
Non dimentichiamo che il Bambino adagiato nel presepe ha il volto dei
nostri fratelli e sorelle più bisognosi, dei poveri che «sono i
privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente
riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi» (Lett. ap. Admirabile signum, 1 dicembre 2019, 6).
Cari fratelli e sorelle,
si tratta dunque di grandi sfide e di necessari equilibri, molte
volte non facili da realizzare, per il semplice fatto che, nella
tensione tra un passato glorioso e un futuro creativo e in movimento, si
trova il presente in cui ci sono persone che necessariamente hanno
bisogno di tempo per maturare; ci sono circostanze storiche da gestire
nella quotidianità, perché durante la riforma il mondo e gli
eventi non si fermano; ci sono questioni giuridiche e istituzionali che
vanno risolte gradualmente, senza formule magiche o scorciatoie.
C’è, infine, la dimensione del tempo e c’è l’errore umano, coi quali
non è possibile né giusto non fare i conti perché fanno parte della
storia di ciascuno. Non tenerne conto significa fare le cose astraendo
dalla storia degli uomini. Legata a questo difficile processo storico,
c’è sempre la tentazione di ripiegarsi sul passato (anche usando
formulazioni nuove), perché più rassicurante, conosciuto e, sicuramente,
meno conflittuale. Anche questo, però, fa parte del processo e del
rischio di avviare cambiamenti significativi[19].
Qui occorre mettere in guardia dalla tentazione di assumere l’atteggiamento della rigidità.
La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per
disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune,
facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio.
Ricordiamo sempre che dietro ogni rigidità giace qualche squilibrio. La
rigidità e lo squilibro si alimentano a vicenda in un circolo vizioso. E
oggi questa tentazione della rigidità è diventata tanto attuale.
Cari fratelli e sorelle,
la Curia romana non è un corpo staccato dalla realtà – anche se il
rischio è sempre presente –, ma va concepita e vissuta nell’oggi del
cammino percorso dagli uomini e dalle donne, nella logica del
cambiamento d’epoca. La Curia romana non è un palazzo o un armadio pieno
di vestiti da indossare per giustificare un cambiamento. La Curia
romana è un corpo vivo, e lo è tanto più quanto più vive l’integralità
del Vangelo.
Il Cardinale Martini, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua
morte, disse parole che devono farci interrogare: «La Chiesa è rimasta
indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura
invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La
fede, la fiducia, il coraggio. [...] Solo l’amore vince la stanchezza»[20].
Il Natale è la festa dell’amore di Dio per noi. L’amore divino che
ispira, dirige e corregge il cambiamento e sconfigge la paura umana di
lasciare il “sicuro” per rilanciarci nel “mistero”.
Buon Natale a tutti!
Nella preparazione al Natale, abbiamo ascoltato le prediche sulla
Santa Madre di Dio. Rivolgiamoci a lei prima della benedizione.
[Ave Maria e benedizione]
Adesso vorrei darvi un ricordo, un pensiero: due libri. Il primo è il
“documento”, diciamolo così, che ho voluto fare per il mese missionario
straordinario [ottobre 2019], e l’ho fatto in forma di intervista, Senza di Lui non possiamo far nulla.
Mi ha ispirato una frase, non so di chi, che diceva che quando il
missionario arriva in un posto già c’è lo Spirito Santo lì che lo
aspetta. Questa è l’ispirazione di questo documento. E il secondo è un
ritiro dato ai sacerdoti poco tempo fa da Don Luigi Maria Epicoco, un
ritiro ai sacerdoti, Qualcuno a cui guardare. Li do di cuore perché servano a tutta la comunità. Grazie!
Bollettino sala stampa della Santa Sede
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