Di Giorgio De Simone
Ho incontrato Alessandro Fo a Grado, in occasione di una serata
letteraria, quando freschissime erano in lui le impressioni di un
viaggio appena compiuto a Medjugorje. Riferite nella conversazione a me e
a un gruppo di amici, mi sono chiesto se queste impressioni non
potessero avere, come meritavano, un pubblico più vasto. Ma se la
sarebbe sentita Fo di portare a conoscenza di tanti lettori
un’esperienza che, dopotutto, rimaneva un fatto personale? Non restava
che domandarglielo. La risposta è stata: «È vero, si tratta di
accadimenti che riguardano una sfera privata, ma ritengo che non sia del
tutto giusto, da parte di chi è stato lì e vi ha provato sensazioni
profonde, rifiutarsi di parteciparle». Quanto segue è la raccolta di
questa «partecipazione».
Può dire come mai è andato a Medjugorje? E, una volta là, come e da quando si è sentito coinvolto?
«La prima volta che sentii parlare di Medjugorje e delle apparizioni
mariane, fra me e me compiansi per la sua ingenuità l’amico che ne
riferiva. Non ero credente e mi disinteressai di quello che supponevo un
caso da liquidare insieme a varie frottole di tipo parapsicologico e di
basso profilo. Molti anni dopo, dolorose vicende private mi avevano
riavvicinato alla religione, ma mi ci ero più che altro "gettato dentro"
in blocco per trovarvi un rifugio, e ancora con molte perplessità. Una
persona cara mi chiese di registrarle un’intervista che una "veggente"
di Medjugorje, Marija Pavlovic, rilasciava, se non erro il 7 aprile
1998, a Radio Maria (presso cui penso si possa acquistare il nastro; è
edita in trascrizione dalla Shalom). Per curiosità, ma con molta
sufficienza, volli poi ascoltarla anch’io. La giovane narrava cose
abbastanza incredibili, tanto più per chi fosse arroccato nelle proprie
riserve razionalistiche. Eppure nella sua voce si coglieva "una luce":
parlava con una autenticità così
imperturbabile, profonda, serenamente perentoria, che mi convinsi che
non potesse mentire. Ho accostato dunque Medjugorje con un solido e
anche un po’ irridente scetticismo, una formazione scientifica
improntata al rigore filologico, tradizioni familiari e frequentazioni
schierate per lo più sul fronte di uno smaliziato disincanto. Ma, caduto
il pregiudizio che mi impediva una metodica raccolta dei dati da
sottoporre poi a un esame, le testimonianze non mi hanno lasciato più
spazio alla contestazione. È avvenuto per caso e con naturalezza, e mi
sono trovato ad adeguarmi docilmente alle conclusioni che quei fatti
implicavano. Solo la scorsa estate, e in realtà senza aspettarmi nulla
di particolare, sono andato di persona a Medjugorje e ne sono stato
subito preso. È difficile riassumere in breve il perché. Mi limito a
dire che laggiù si svolge un tipo di vita molto diverso rispetto a
quello cui siamo abituati qui. Tutto ruota con intensa semplicità
attorno a un criterio di religiosità. Ritornarne è stato per
me quasi sperimentare una sorta di sradicamento e di regressione a un
mondo di maggiore dispersione».
Per questa sua esperienza, lei potrebbe parlare di «conversione»?
«Pur con tutti i limiti delle persistenti debolezze personali, direi di
sì. L’intervista a Marija mi ha scosso, e spinto a dedicare più tempo al
divino. Ma mi costava ancora fatica, e specialmente la preghiera
richiedeva un notevole sforzo di volontà. L’urgenza delle mie cose era
prevaricante, e Dio restava più che altro una sponda cui ricorrere nel
bisogno. Quei tre giorni a Medjugorje mi hanno donato una nuova, quieta
sicurezza, e un’interiorità differente. Sono io il primo a stupirmi (e a
chiedermi se e quanto potrà durare) di un’inversione delle priorità. Il
bisogno principale sembra divenuto quello di sintonizzarsi sul divino.
E, soprattutto, questo mi viene naturale, senza più forzature. Ne
avverto la necessità, come di bere e mangiare. L’avevo sentito dire
spesso, da e di molte persone; ma sperimentarlo è un’altra cosa. A
Medjugorje si sono avute guarigioni inspiegabili; molti altri pellegrini
hanno vissuto esperienze particolari: ve ne sono moltissime
testimonianze. Ma anche al di là di questo, direi
che a Medjugorje è netta la sensazione di trovarsi in un luogo "pieno di
Grazia". Si potrà dire: è tutta autosuggestione, durerà poco. Questo
non cambia, né per me sminuisce, l’impressione che "qualcosa" mi abbia
soffiato via la polvere da dentro».
Che cosa si può dire, da parte di un poeta che è anche un cattedratico e
un uomo di cultura, a chi nel suo mondo non crede o non vuole credere?
«Per secoli ci si è chiesti se si potesse dimostrare il divino. Dal mio
punto di vista, Medjugorje è appunto una prova dell’esistenza di Dio, e
della veridicità del cristianesimo. Non vedo alternative: o è tutto un
falso, una truffa (ma, fra l’altro, a che scopo?); oppure Medjugorje
impegna a conseguenze che portano inevitabilmente nella direzione del
Dio cristiano. Da quando il mio scetticismo è inciampato nei fatti di
Medjugorje, il problema di Dio mi si è come rovesciato e l’onere della
prova ricade per me ora su chi si senta capace di revocarli in dubbio.
Normalmente, chi non crede si sente al sicuro, non rischia imputazioni
di squilibrio e fanatismo; né perde tempo con faccende come le
apparizioni mariane, relegate nell’ambito di una devozione spicciola,
buona ad accontentare i creduloni. In questa situazione, una
testimonianza controcorrente rischia un’accoglienza diffidente e
imbarazzata. Forse sarebbe più efficace una provocazione: solo chi
giunga a smontare Medjugorje come una mistificazione può
riproporre credibilmente materialismo, ateismo e così via. L’impresa non
è ancora riuscita. Si tratta delle apparizioni più studiate di sempre, e
con fior di strumentazione scientifica: la loro attendibilità non ne è
uscita scalfita, anzi se mai rafforzata, perché anche gli sperimentatori
più scettici hanno dovuto arrendersi di fronte all’impossibilità di
ridurre il fenomeno a forme di allucinazione o di patologia (se ne trova
documentazione, con tutto l’essenziale su Medjugorje, nell’assai utile
libro di Riccardo Caniato e Vincenzo Sansonetti Maria, alba del terzo
millennio, edito da Ares). Raccogliere questa sfida costringerebbe a
informarsi sui fatti, che parlano da sé, con ben altra eloquenza».
Come «lavora» adesso la Vergine nella sua vita? E come potrebbe
lavorare, a suo parere, su più vasta scala? La persistente
raccomandazione della Madonna di pregare, sempre pregare e digiunare, la
trova d’accordo?
«Se qualcuno credesse – come personalmente credo – che la Madonna
esiste, appare da 23 anni ai sei ragazzi di Medjugorje e chiede di
praticare la preghiera e il sacrificio di qualche digiuno a pane e
acqua, ebbene, questa persona, chi mai dovrebbe ritenere di essere, per
non "trovarsi d’accordo" con lei? Così la Madonna "lavora" nella mia
vita come in quella di milioni di persone che a lei si affidano. Impegna
a un’apertura al divino e a un’autocostruzione spirituale facili da
affrontare e remunerate con una pace interiore che aiuta a affrontare
sia le piccole cose quotidiane sia prove più ardue. Le sue
raccomandazioni a Medjugorje mi hanno portato a credere che, a parte
altre buone opere, davvero preghiera e digiuno possano contribuire a
inclinare verso il piatto del bene la bilancia del mondo. L’economia
divina è quaggiù impossibile da comprendere fino in fondo nei
particolari: neppure attraverso questa "bolla" di eterno nel tempo,
questo dialogo fra grandezze assolutamente incommensurabili fra loro,
che
pure si articola in un linguaggio a noi comprensibile, tramite immagini e
simboli che ci siano semplici e praticabili. Ed è giusto così, se no
saremmo divini, e non umani. È già molto che ci siano stati dati dei
punti di riferimento. L’ultimo dei quali sono, per me, questi oltre 23
anni di apparizioni quotidiane e raccomandazioni specifiche:
"l’avvenimento del secolo", secondo il titolo del recente libro di Padre
Livio Fanzaga edito da Sugarco. Eppure, come ci ha rimproverato altrove
la Madonna stessa, "voi non ci fate caso". Lavorare su più vasta scala
spetterebbe ora a noi uomini, non al divino».
Lei parlava delle sue tradizioni familiari schierate su uno «smaliziato
disincanto» che presumibilmente, e se non entriamo troppo sul terreno
personale, rimane ed è vigoroso. Può dirci qualcosa in merito?
«Immagino che la domanda miri soprattutto a cogliere un’eventuale
distanza fra le dichiarazioni cui mi avete invitato e le posizioni
prevedibili per i miei zii Franca Rame e Dario Fo. Se è così devo però
deludere l’eventuale curiosità, perché, a parte quello che sarebbe qui
un doveroso riserbo sulle opinioni altrui, non abbiamo mai avuto modo di
discutere di questi temi. Ricorderei tutt’al più un particolare di
quella stessa famosa trasmissione televisiva durante la quale Dario
apprese di aver vinto il Nobel: pur dal suo punto di vista
sostanzialmente laico, a domande piuttosto dirette rispose con alcune
considerazioni che mi colpirono, anche per la loro levatura poetica, su
come tutto sia "così pieno di divino"».
Cultura contemporanea e religione. In che rapporto le vede e, più
ancora, le sente? Di questa sua rinnovata visione della vita ha
intenzione di parlare al mondo accademico, ai colleghi, ma soprattutto
ai suoi studenti?
«Non ho alcuna autorità per parlare di nulla a nessuno in materia di
fede; e sono poi argomenti che nel mio ambito, per come la vedo io, si
dovrebbe cercare di non svilire facendone oggetto di conferenza o di una
propaganda fuori luogo. Diverso è il caso di studenti e colleghi che
siano innanzitutto amici, ma allora si rientra nell’ambito del privato.
Quanto all’altra questione, è troppo complessa per liquidarla in due
parole. Mi limito a azzardare qualche impressione estemporanea.
Religione e religiosità mi sembrano oggi piuttosto sottovalutate quanto
al loro potenziale positivo, e guardate con diffidenza da una cultura
contemporanea (se si può impiegare per brevità questo generico concetto
di comodo) la cui inclinazione laica ha spesso aspirato a disinnescare
in partenza potenziali derive fanatiche e fondamentaliste. Ma, a certi
livelli di elaborazione o di autenticità nel rapportarsi alla vita,
anche la più laica delle culture può entrare in convergenza con certi
aspetti della religione. Così, quella
stessa cultura nel cui ambito mi trovo a lavorare può non essere
confessionale nella forma – e direi anzi che certe sue articolazioni
dovrebbero evitare programmaticamente di essere tali –, ma risultare
almeno in parte religiosa nella sostanza».
Fonte:http://medjugorje.altervista.org/doc/testimonianze//019-nipotedariofo.php
CHE DIO BENEDICA MEDJUGORIE IN ETERNO !!!!!
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